C’era una volta…
- Un Presidente coi tacchi e i capelli finti! - direte voi.
Invece no, cari lettori.
C’era una volta un ragazzo con i capelli lunghissimi (e senza i tacchi).
Non era un ragazzo chissà che speciale, a dire il vero. Diciassette anni, figlio unico, viveva con mamma e papà in una casina di tufo di un paesello dell’Italia centrale. Il padre sapeva pascolare le pecore, parlare al maiale e strizzare le olive. La madre sapeva cucire, lavare e cucinare. Lui, il ragazzo con i capelli lunghissimi, faceva la terza superiore. Il pomeriggio si divertiva a torturare una vecchia chitarra stonata e a giocare a pallone con gli amici della scuola, che poi erano gli stessi con cui usciva la sera e gli stessi con cui, ogni settimo giorno, scendeva al campo sportivo per fischiare la squadra venuta da fuori.
Ora non so bene come accadde, ma il fatto è che un disgraziato giorno d’aprile il padre e la madre del ragazzo ebbero un terribile incidente d’auto, e morirono.
Era a scuola. Se ne stava alla lavagna da una decina di minuti almeno nella speranza di scoprire il segreto che gli permettesse di scomporre un polinomio che di farsi scomporre non ne voleva proprio sapere. E se la professoressa di matematica, un’antipaticissima zitella di prugna cotonata, non avesse continuato a picchiettare le unghie sulla cattedra, i compagni si sarebbero di sicuro assopiti, un po’ per l’aria oppressa della classe, un po’ per le merendine farcite del distributore automatico consumate in fretta e furia durante l’intervallo. Così, nel tentativo di guadagnare secondi preziosi, il ragazzo aveva cominciato a gigioneggiare coi propri capelli, lisciandoseli coi polpastrelli e rifacendosi la coda di cavallo a più riprese.
D’un tratto la professoressa smise di picchiettare le unghie. Si alzò dalla cattedra e puntò la lavagna. Il silenzio ghiacciò la stanza. Il ragazzo smise di preoccuparsi dei propri capelli.
- Ma non lo vedi, mio caro, che è un polinomio di primo grado, questo?
Il tic-tic delle sue unghie-a-orologeria riprese sulla superficie della lavagna.
- Sì… - buttò lì lui.
- E allora! - vomitò lei - Se è di primo grado non si può scomporre! Ogni/polinomio/di/primo grado/è/irriducibile/per/definizione! - scandì a tutta gola - L’abbiamo visto ieri! C’eri/tu/ieri?!
- Sì… - azzardò lui.
- Ma daaai! - baritonò lei - C’eeeri!
Bussarono alla porta.
- Avanti! - schioccò la donnaccia, una mano incollata alla lavagna, sopra il polinomio, l’altra poggiata sul fianco.
La porta verde ospedale si schiuse incerta. Sulla soglia, la sagoma di un signore rinsecchito e ricurvo, occhiali stile Ivan Graziani, cappellaccio verde scuro tra le dita, capelli bianchi tutti arruffati.
Il ragazzo coi capelli lunghissimi diventò rosso in viso.
- Nonno… ma…
Il vecchio tossì, prima piano, poi più forte, fino a non respirare quasi più.
- Alfredo… - sibilarono le labbra del vecchio tra un colpo di tosse e l’altro.
E una grossa lacrima scivolò lungo un solco della sua guancia rugosa. Dietro di lui, a testa bassa, spuntarono due carabinieri.
Ora non vi racconto per filo e per segno di come il ragazzo, appresa la triste notizia, si mise a scalciare il distributore di merendine, urlando e piangendo per la disperazione. Né mi soffermo sul numero di volte in cui si sentì mancare durante il funerale. Il punto è che quelli furono giorni davvero tremendi per il ragazzo con i capelli lunghissimi.
Fino a quando, un tiepido giorno di tardo giugno, fu presa la decisione di lasciare il paesello che continuava a portargli solo notti inquiete, assistenti sociali e parenti prima mai visti per andare a passare l’estate in campagna, nel casolare del nonno. E già la mattina seguente fu chiamato un taxi per prelevare il vecchio, il nipote e i bagagli dalla casina di tufo e portarli alla stazione dei treni.
Ebbene, cari lettori, ciò che accadde dopo quel viaggio per terra e rotaie verso Nordest (senza il trattino) è una storia così assurda e insieme così vera da non potersi quasi credere
venerdì 17 novembre 2006
Le nuove avventure del burattino moderno
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