venerdì 17 novembre 2006

Com'è dura essere straniero in casa d'altri

Alfredo va in paese convinto di poter rimediare qualcosa da mangiare


Alfredo trovò tutto buio e silenzioso. Oltre la statale che squarciava il paese, la chiesa dormiva. Al di qua, la porta del bar mostrava le serrande abbassate. L’orologio tondo del campanile segnava le nove di sera. Sulla statale, per quel che la foschia lasciava vedere, non c’era nessuno.
Alfredo sentì lo stomaco crepitare. Mise una mano sul ventre e si incamminò per la statale. Sentì un rumore dietro di sé, gli parve lontano. Ma dopo due passi si voltò, che il rumore si era fatto più forte. Vide due grossi fari di camion bucare di colpo la nebbia. Si scostò dalla strada, scivolando coi piedi sul ciglio d’erba folta e bagnata, e si aggrappò al tronco di un enorme viscido platano. Il veicolo sfrecciò con un frastuono di ferraglia che a poco a poco si disperse nella nebbia. Il ragazzo dai capelli lunghissimi, nel farsi forza contro il platano per risalire sulla strada, fece cadere un paio di fogli. Uno era giallo, conteneva la pubblicità di un corso rapido d’inglese, l’altro era bianco, con delle scritte verdi a caratteri cubitali. Raccolse dall’erba quest’ultimo: “Padroni a casa nostra!”. Lo lesse un’altra volta, poi si guardò attorno. Lasciò il foglio alla base del platano e riprese il cammino. Dopo pochi passi, sulla destra, trovò un imponente cancello di ferro battuto che sbarrava l’ingresso a una stradina di sassi. In fondo, sfocata nella foschia, Alfredo distinse una villetta con una terrazza illuminata. Davanti, erano parcheggiati un trattore alto quanto la casa e una Bmw scura con dei vistosi cerchi argentati alle ruote e un assetto sportivo che comprendeva alettoni avanti e dietro e minigonne a ogni lato.
Il ragazzo si avvicinò al campanello. Non trovò alcun cognome ma soltanto due nomi, uno di fianco all’altro: “Mario e Giovanni”. Appena sotto un adesivo: “No Geova”. Sentì di nuovo un crampo di fame prenderlo allo stomaco e suonò. Immediatamente, un faro posizionato ai piedi del cancello accecò il ragazzo. Non appena fu capace di riaprire gli occhi vide che le punte del cancello erano lunghissime e affilate, e sostenevano tre pali di legno con altrettante bandiere. Quella più a destra era amaranto e aveva un leone dorato al centro. Quella più a sinistra era bianca e aveva un omino con un uno scudo in una mano e una spada levata al cielo nell’altra. La bandiera al centro, più alta rispetto alle altre, era tutta rossa con la scritta “Ferrari”.
Mentre Alfredo se ne stava col naso all’insù a fissare le bandiere, una voce maschile, roca e decisa, tuonò dalla villa.
- Chi è?!
- Salve... - improvvisò Alfredo senza riuscire a individuare da quale punto arrivasse la voce - Volevo solo chiedere se...
- Non serve niente, arrivederci!
- Non... - provò il ragazzo, riuscendo ora a scorgere la sagoma scura muoversi nella terrazza.
Ma non fece a tempo di terminare la frase che già la porta s’era richiusa. Allora il ragazzo risuonò il campanello per poter illustrare l’equivoco. Qualche secondo e sentì un cane ringhiare. Fece d’istinto un passo indietro. Da dietro la villa spuntò un enorme cane nero, che puntò deciso il cancello, rabbioso. Alfredo, con un paio di balzi, si rimise sulla statale e cominciò a correre.
Quando si fermò per rifiatare, la nebbia si era leggermente levata e la luna, rotondissima in cielo, si sforzava di rischiarargli la strada.
Una volta a casa non ebbe nemmeno la forza di levarsi il giubbotto. Trascinò una sedia davanti al camino e ci si buttò sopra, allungando le gambe per poggiare le scarpe da ginnastica sulle pietre grezze del focolare.
Un minuto dopo era già che russava.
Così fece per tutta la notte finché, di buon mattino, fu svegliato da un bussare alla porta. Si destò rintronato per la posizione tenuta nel sonno, e con un nuovo crampo di fame gli dava il buongiorno, riuscì a chiedere chi era.
- Sono io! Apri! - rispose una vocina irritata.
Era il nonno, rimasto fuori casa per tutta la notte.

Ai ragazzi di oggi non piace il sanguinaccio

Sistemato il Pescatore di rane in fondo al fosso, Alfredo torna al casolare del nonno e cerca qualcosa di buono per calmare la fame.

Era calata la notte, e assieme a lei una vaga foschia.
Il ragazzo dai capelli lunghissimi, che non aveva messo in pancia niente dalla buonora del mattino, sentì lo stomaco scricchiolare. E un momento più tardi erano già crampi e fitte al ventre.
Alfredo entrò e si avvicinò subito ai fornelli della cucina economica dove stavano abbandonate le pentole che il nonno aveva usato per cena. Le scoperchiò prima una poi l’altra, passandole tutte per poi ricominciare da capo, ma non vi trovò che avanzi rappresi di ciò che aveva già rifiutato poche ore prima: riso bianco, polenta e sanguinaccio. Fece una smorfia, poi iniziò a scostare le tendine color panna della credenza nella speranza di racimolare una merendina al cacao come quelle del distributore della scuola, un pezzetto di cioccolata o almeno qualche biscotto. Intanto la fame cresceva, le fitte allo stomaco chiamavano insistenti, così che il povero ragazzo provò a mettersi al tavolo ancora apparecchiato e prese in mano il tegame che il nonno aveva usato per i sanguinacci. Ne prese uno tra due dita, titubante. Socchiuse gli occhi come di fronte a una medicina indigesta e gli diede un piccolo, incertissimo morso. Tenne il boccone tra i denti qualche momento ma poi, ripensando alle parole del nonno che avevano descritto così precisamente il destino del maiale e la preparazione di ciò che ora teneva tra i denti, spalancò gli occhi e sputò il boccone sulla tovaglia. Si pulì la bocca e si lasciò andare sulla sedia stremato per la fame che non dava pace. Guardò sopra la credenza e si ritrovò nello specchio impolverato. Approfittò per rifarsi la coda di cavallo e meditare. Concluse che per mettere qualcosa di decente sotto i denti sarebbe dovuto uscire di casa e comprare qualcosa. Si accorse che riflessa sullo specchio c’era la sagoma di un portamonete marrone, proprio dietro di lui. Si voltò, lo trovò appoggiato accanto ai fornelli. Era di cuoio scuro, screpolato, e sembrava molto vecchio. Si alzò in piedi, lo prese e lo aprì fiducioso. Dentro, però, non vi trovò che poche monete, oltre alla foto in bianco e nero, ingiallita e tutta stropicciata, di una ragazza in gonne lunghe e zoccoli ai piedi. La prese in mano e la guardò sorridere a un palmo dal suo naso. Pensò che doveva essere la foto di sua nonna, quando lei era giovane e lui nemmeno c’era. La rimise nel portamonete.
- Con questi non mi compro neanche mezzo panino… - pensò contando le monete sul tavolo, poi un crampo gli percorse la pancia a tradimento. Provò a carezzarla con la mano.
Trovò lo slancio per alzarsi e si diresse verso la porta d’ingresso. Prese le chiavi che stavano ancora nella toppa, e dopo aver chiuso la porta con due mandate se le mise nel taschino del giubbotto di jeans. Fuori ormai era buio, e la foschia s’era un poco infittita. Dal cortile, oltre ai lampioni che provavano a rischiarare la strada di casa, Alfredo intravide una luce lontana andare e venire in mezzo ai campi. Gli tornò in mente l’incontro col vecchio delle rane, e le parole che aveva pronunciato.
- Però… se avessi un lavoretto… almeno qualche soldo per comprarmi qualcosa ora ce l’avrei... - pensò.
Si sistemò di nuovo la coda di cavallo e sì alzò i baveri del giubbotto per proteggersi dall’umidità che saliva dai campi. Si ficcò le mani in tasca, poi s’incamminò per il paese.
Lì avrebbe trovato qualcosa di sicuro.

L'incontro di Alfredo col Pescatore di rane

L’incontro di Alfredo col Pescatore di rane, dove si vede come i ragazzi testardi non amino sentirsi correggere da chi, per esperienza, crede sempre di saperne di più.


Mentre il povero nonno veniva trascinato in casa di riposo dal vigile del Nordest, Alfredo, salutata la folla della chiesa, si avviò con tutta calma verso casa. Tagliò per i campi di soia e le vigne ancora acerbe, saltando i fossi umidi che segnavano i confini fra le prese dei contadini.
Mentre si preparava a passarne uno di particolarmente profondo, sentì una voce bestemmiare. Gli sembrò venire dal fondo del fosso. Tirò lo sguardo, e nella penombra della sera scorse un vecchietto tutto rugoso, con un naso grosso e rubizzo. Stava cercando di risalire la parete umida del fossato aiutandosi con un bastone di legno, e aveva in mano una sporta di sacco marrone e un sacchetto pieno di batuffoli bianchi sistemato alla cintola dei pantaloni di tela.

- Buonasera… - improvvisò Alfredo spaventato.

- Pian, fai piano… - ammonì il vecchio risalendo il fosso.

- Mi scusi, stavo passando di qui per tornare a casa, abito qui vicino… - spiegò il ragazzo dai capelli lunghissimi.

- Sì, va ben, ma piano, che mi spaventi le rane…

- Le rane?

- Si prendono col silenzio e lo scuro di luna… - disse il vecchio aprendo un lembo del sacco che portava alla cintola e passandolo al giovane.

Alfredo ci sbirciò dentro.

- E come si prendono?

- Non è difficile, ma ci vuole pazienza…

- Con il cotone? - il giovane indicò la punta del bastone del vecchio.

- Le rane sono come le pecore, scimmiottano sempre quello che fanno le altre, senza ragionare…

- Senza ragionare?

- Se una salta, le altre dietro, se una canta, le altre in coro…

- E allora?

- Bisogna essere furbi, capire quando è il momento giusto…

- Per fare che?

- Per fargli vedere il cotone, no? Se una lo morde, le altre dietro! - ghignò il vecchio indicando il fondo del fosso.

- Ma mangiano cotone?

- Sì, cioè, non proprio… non è che se ne cibano, ma se per caso una lo morde perché è curiosa le altre fanno a gara per imitarla, e tu te ne porti a casa una sporta intera per la cena...

- Che schifo!

- Non sai cosa ti perdi, figliolo! Ma le hai mai assaggiate, prima di dire che fan schifo?

- No, ma solo l’idea...

- Povero te! In pentola col pomodoro son la fine del mondo!

- E com’è che ha imparato a prenderle? - sbuffò Alfredo.

- Mi ha insegnato mio padre, era un cacciatore di rane, le prendeva per venderle alle osterie… e a lui ha insegnato mio nonno... insomma, di padre in figlio, sono almeno cent’anni che giriamo per questi fossi…

Il ragazzo fissò i campi tutt’intorno.

- E tu? Di chi sei tu? - lo ridestò il vecchio.

- Io? Sono Alfredo…

- Ho capito, ma Alfredo di chi?

- Di chi? Di… Rossi… Antonio Rossi…

- Rossi… Toni Rossi… strano, non conosco nessun Rossi di qui…

Il ragazzo dai capelli lunghissimi diventò tutto rosso.

- Dove vai a scuola? - chiese il vecchio.

- A scuola?

- Lavori… - ipotizzò il vecchio - Cosa fai?

- Mi piacerebbe suonare la chitarra…

Il vecchio scoppiò in una grossa risata.

- Far il cantante? - singhiozzò poi.

- Magari in un gruppo… oppure mi piacerebbe fare il calciatore…

Il vecchio rise più forte di prima.

- E chi non vorrebbe esser pagato per cantare o giocare a pallone, figliolo! Non son mica mestieri veri questi qui! - sentenziò il vecchio.

- E perché no? - reagì Alfredo.

- Ascolta me! - tuonò il vecchio - Torna a studiare o impara un mestiere, se no finirai dentro a un sacco come le mie rane! - e riprese a ridere di gusto, allungando la mano al ragazzo per riprendersi il sacco con le rane.

Alfredo esitò, poi prese lo slancio col braccio e lanciò il sacco addosso al vecchio che, bestemmiando, scivolò di nuovo in fondo al fosso. E tutte le rane del sacco, libere, presero a saltellargli sul petto.

Arrestato dai vigilantes dopo una lite con Alfredo

Appena raggiunto il Nordest (senza il trattino), Alfredo scappa dal casolare del nonno e senza volerlo mette nei guai il povero vecchio.

A metà pomeriggio Alfredo posò i piedi sul cortile del casolare del nonno. Non era la prima volta che il ragazzo con i capelli lunghissimi vedeva la casa del vecchio, ma era passata una vita dall’ultima volta che suo padre lo aveva portato fin lì, alle porte di Padova, per un saluto dopo l’ennesimo ricovero per via dei polmoni. Ora il vecchio abitava solo, ma un tempo, quando aveva posato la vanga per il Petrolchimico di Marghera, aveva vissuto con le famiglie di fratelli e cugini.
- Non hai fame? - si preoccupò il nonno.
- Non molta - mentì il ragazzo.
- Non mangi da stamattina…
- Non mi va.
- Ho dei sanguinacci, su in solaio…
Il ragazzo squadrò il vecchio.
- Vado a prenderli, sono subito pronti!
Ma già al primo assaggio il viso di Alfredo si attorcigliò per il disgusto. Quando il nonno spiegò come aveva ucciso il maiale durante l’inverno, il giovane prese silenziosamente congedo dal piatto e rifornì d’acqua il suo bicchiere.
Il vecchio cercò un argomento buono per conversare.
- Ho sentito prima, mentre giravo la polenta… cos’era?
- Cose moderne.
- Tipo?
- Non le conosci.
- Ah bè, ma erano belle… sei mai andato a scuola di chitarra?
- No.
- Potresti…
Alfredo fissò il nonno, poi ripose gli occhi sul tavolo.
- Ti potrebbero aiutare a…
- Suono così, ho imparato da solo.
- Sì, ma se vai da qualcuno che ne sa di più magari ti…
- Ascolto la radio e imparo.
- Ti potrebbero consigliare, no? Quando ero in Africa c’era un tenentino sardo che…
Il giovane scattò.
- Alfredo! - provò il nonno, ma il nipote stava già sul cortile.
- Aspetta! - gracchiò il vecchio iniziando a tossire.
Il ragazzo prese per i campi. Il nonno, raccattato il Califfone dalla stalla, si lanciò dietro al nipote sulla strada di sassi.
- Fermati! - provò a urlare il vecchio raggiunto il paese, in prossimità della chiesa dove si era appena cantata la messa della sera. A sentire quelle grida, il vigile che assisteva i fedeli nell’attraversare la statale si mise a gambe larghe, di traverso, e con l’enorme pancione riuscì a fermare il ragazzo, che cadde rovinosamente a terra. Il vigile lo risollevò prendendolo per la coda (che pareva fatta a posta per essere acchiappata dai vigili del Nordest), mentre la gente si era ormai disposta tutto intorno, in mezzo alla strada.
Il nonno si fece largo a stento tra i curiosi col Califfone a mano, tossendo, i capelli scompigliati e gli occhiali di traverso.
- Alfredo… - riuscì a dire appena.
Il nipote si aggrappò al pancione del vigile.
- Povaréto… - piagnucolò una prima vecchietta.
- Guarda com'è conciato, non è mica tutto sano quello lì… - analizzò una seconda vecchietta puntando il dito contro il nonno (che guarda un po’ non risultava della stessa parrocchia).
- Sarà un ubriacone… chissà se lo batte, a casa… - fece una signorina abbronzata, ornata di gioielli, tutta truccata.
- Hanno detto che sono scappati due matti dalla casa di riposo… - buttò lì uno.
- L’ho sentito anch’io… - raccolse un altro.
- È vero! - chiosarono in coro.
Intanto il giovane stava aggrappato al pancione del vigile, e capita l’antifona cominciò a dire che “quel balordo” aveva preso a inseguirlo così, senza motivo, mentre stava giocando per la strada.
Il vecchio, sentendosi accusato, rinculò di qualche passo. Provò a replicare che quel ragazzo con i capelli lunghissimi era solo suo nipote, ma iniziò a tossire che non lo fermava più nessuno e a lacrimare per gli sforzi. Il vigile, che per gli occhi rossi lo giudicò gran bevitore, lo bloccò per un braccio. Lo avrebbe accompagnato alla casa di riposo per verificare se fosse davvero fuggito da lì.
- Ma io… - tentò il vecchio fra i colpi di tosse mentre veniva caricato in auto.
- Silenzio nonnetto! Poche storie, che ti do pure la multa per il casco! - ringhiò il vigile.
- È quel che ci vuole! - decretò la prima vecchietta.
- Razza di ubriacone! - precisò la seconda.

Le nuove avventure del burattino moderno

Come andò che un ragazzo sfortunato si ritrovò di punto in bianco senza padre e senza madre, e fu costretto a lasciare la sua casina di tufo per andare a vivere in un posto bizzarro e tutto nuovo, chiamato “Nordest” (senza il trattino).

C’era una volta…
- Un Presidente coi tacchi e i capelli finti! - direte voi.
Invece no, cari lettori.
C’era una volta un ragazzo con i capelli lunghissimi (e senza i tacchi).
Non era un ragazzo chissà che speciale, a dire il vero. Diciassette anni, figlio unico, viveva con mamma e papà in una casina di tufo di un paesello dell’Italia centrale. Il padre sapeva pascolare le pecore, parlare al maiale e strizzare le olive. La madre sapeva cucire, lavare e cucinare. Lui, il ragazzo con i capelli lunghissimi, faceva la terza superiore. Il pomeriggio si divertiva a torturare una vecchia chitarra stonata e a giocare a pallone con gli amici della scuola, che poi erano gli stessi con cui usciva la sera e gli stessi con cui, ogni settimo giorno, scendeva al campo sportivo per fischiare la squadra venuta da fuori.
Ora non so bene come accadde, ma il fatto è che un disgraziato giorno d’aprile il padre e la madre del ragazzo ebbero un terribile incidente d’auto, e morirono.
Era a scuola. Se ne stava alla lavagna da una decina di minuti almeno nella speranza di scoprire il segreto che gli permettesse di scomporre un polinomio che di farsi scomporre non ne voleva proprio sapere. E se la professoressa di matematica, un’antipaticissima zitella di prugna cotonata, non avesse continuato a picchiettare le unghie sulla cattedra, i compagni si sarebbero di sicuro assopiti, un po’ per l’aria oppressa della classe, un po’ per le merendine farcite del distributore automatico consumate in fretta e furia durante l’intervallo. Così, nel tentativo di guadagnare secondi preziosi, il ragazzo aveva cominciato a gigioneggiare coi propri capelli, lisciandoseli coi polpastrelli e rifacendosi la coda di cavallo a più riprese.
D’un tratto la professoressa smise di picchiettare le unghie. Si alzò dalla cattedra e puntò la lavagna. Il silenzio ghiacciò la stanza. Il ragazzo smise di preoccuparsi dei propri capelli.
- Ma non lo vedi, mio caro, che è un polinomio di primo grado, questo?
Il tic-tic delle sue unghie-a-orologeria riprese sulla superficie della lavagna.
- Sì… - buttò lì lui.
- E allora! - vomitò lei - Se è di primo grado non si può scomporre! Ogni/polinomio/di/primo grado/è/irriducibile/per/definizione! - scandì a tutta gola - L’abbiamo visto ieri! C’eri/tu/ieri?!
- Sì… - azzardò lui.
- Ma daaai! - baritonò lei - C’eeeri!
Bussarono alla porta.
- Avanti! - schioccò la donnaccia, una mano incollata alla lavagna, sopra il polinomio, l’altra poggiata sul fianco.
La porta verde ospedale si schiuse incerta. Sulla soglia, la sagoma di un signore rinsecchito e ricurvo, occhiali stile Ivan Graziani, cappellaccio verde scuro tra le dita, capelli bianchi tutti arruffati.
Il ragazzo coi capelli lunghissimi diventò rosso in viso.
- Nonno… ma…
Il vecchio tossì, prima piano, poi più forte, fino a non respirare quasi più.
- Alfredo… - sibilarono le labbra del vecchio tra un colpo di tosse e l’altro.
E una grossa lacrima scivolò lungo un solco della sua guancia rugosa. Dietro di lui, a testa bassa, spuntarono due carabinieri.
Ora non vi racconto per filo e per segno di come il ragazzo, appresa la triste notizia, si mise a scalciare il distributore di merendine, urlando e piangendo per la disperazione. Né mi soffermo sul numero di volte in cui si sentì mancare durante il funerale. Il punto è che quelli furono giorni davvero tremendi per il ragazzo con i capelli lunghissimi.
Fino a quando, un tiepido giorno di tardo giugno, fu presa la decisione di lasciare il paesello che continuava a portargli solo notti inquiete, assistenti sociali e parenti prima mai visti per andare a passare l’estate in campagna, nel casolare del nonno. E già la mattina seguente fu chiamato un taxi per prelevare il vecchio, il nipote e i bagagli dalla casina di tufo e portarli alla stazione dei treni.
Ebbene, cari lettori, ciò che accadde dopo quel viaggio per terra e rotaie verso Nordest (senza il trattino) è una storia così assurda e insieme così vera da non potersi quasi credere

Una questione di immaginario

Perché scomodare la fiaba di Collodi per raccontare il posto in cui vivo?
Facile: non c'è modo migliore.
Non per me. Non per il mio immaginario.

Sàrmede, Treviso. Un paio d'anni fa.
Mostra dell'illustrazione per l'infazia. Tema: Pinocchio.
Vertigine: ma io questi luoghi li conosco! Ma sono i miei! Io ci convivo da sempre (ci provo, voglio dire)!
E questo Gatto qui! Questa Volpe! questo Geppetto, questa Fatina sono proprio...
Swoosh!
Inghiottito per sempre. Risucchiato nelle illustrazioni di Sàrmede.
Proprio come nella vita: risucchiato a Nordest.

Nordest: tragicomagico Orto che non ha pari nel Mondo.

Avanti stranieri venite!
Venite provate anche voi!
A Nordest si piange e si ride!
Provate a ballare con noi!
A Nordest si piange e si ride!
Non ditelo in giro: qui ci si diverte così!