sabato 23 dicembre 2006
Questione di punti di vista...
L'illustrazione che uscirà domenica 31 dicembre sui quotidiani veneti del gruppo ePolis non assomiglia per niente a quanto vedete qui sopra, nonostante sia lo schizzo dal quale tutto è iniziato. Ogni settimana leggo la puntata opportunamente preparata da Guido ed inizio a pensare a quale sarà il momento che illustrerò. Lavoro, deviazione mentale fumettara, accostando il nuovo disegno al precedente, cercando di dare all'insieme (che però vedo solo io!) una struttura il più "narrativa" possibile, cercando di variare le inquadrature e che il tutto mantenga una visione complessiva che possa suggerire il racconto anche senza leggerlo.
Non mi piaceva che i due personaggi stessero nelle stesse posizioni della pagina in cui stavano i due personaggi dell'illustrazione precedente, ecco. Per cui ho preso e cambiato tutto, dal momento illustrato al punto di vista di tutta l'inquadratura.
Ed eccomi a condividere ancora con voi quei disegni che meriterebbero di non essere mai mostrati ad occhio umano.
E' imbarazzante.
Non ingrassate troppo in questo natale.
Baci,
c.
mercoledì 20 dicembre 2006
Signor Imprenditore, gradisca i miei quattrini
Il padrone del night pareva un tipo feroce e senza scrupoli. Sarà stato per i capelli unticci o i vestiti sudati, per la puzza di alcol o per il petto villoso, fatto sta che nessuno avrebbe mai desiderato fare bega con lui. In fondo, però, non era un uomo cattivo: prova ne sia che quando i due omoni di nera pelle vestiti riportarono il povero Alfredo sul palco trasportandolo per i suoi lunghissimi capelli, il padrone si mostrò subito impietosito. Il ragazzo chiese mille volte perdono finché lui non ne poté più: allora, produsse un rutto spaventoso. Al quel suono disumano, la ragazza mulatta, che aveva seguito la scena in silenzio accanto al tipo con la voce roca che aveva fatto spogliare il povero Alfredo di fronte a tutti, sorrise al ragazzo: in cuor suo, lei sapeva bene che le cose si sarebbero aggiustate. Sì, perché ogni volta che il padrone si esibiva in un rutto così inequivocabile era segno che tutto l’alcol della sera era stato infine smaltito e che il suo animo si faceva più mite.
Dopo aver ruttato, il padrone provò a recitare (piuttosto invano) la parte del duro.
- Finiscila di lamentarti, ragazzino! Le tue lagne cominciano a darmi allo stomaco! - e così via.
Poi emise altri due rutti. Lunghi e profondi.
- Salute… - lo pizzicò Alfredo sottovoce.
- Insomma! Bisogna pure capire la mia posizione! Qualcuno mi dovrà ripagare tutto questo casino! E siccome io sono un padrone buono, se tu non mi puoi risarcire tutto da solo mi darai quel che hai nel portafogli! Il resto lo toglierò dalla paga di quella sgualdrina! - sbraitò puntando la ragazza mulatta.
- Lei conosce le regole - proseguì - eppure non ha mosso un dito per impedire che il signore eccitasse la folla con le sue urla.
Figuratevi allora la povera ragazza! Si sentì talmente tradita dal ragazzo con i capelli lunghissimi che divenne tutta triste in viso. Abbassò lo sguardo per non incrociare quello di Alfredo.
Il ragazzo, allora, si avvicinò al padrone del night (sfidando la repulsione per la puzza di alcol e sudore rappreso) e con voce supplichevole, prese a piagnucolare.
- Non è giusto Signor padrone!
- Suvvia, ragazzo, ma quale Signore…
- Non è giusto signor Dottore!
- Suvvia, ragazzo, ma quale Dottore…
- Non è giusto signor Imprenditore!
A sentirsi chiamare così, il padrone si gonfiò subito in petto. Assunse aria e toni che parevano più professionali.
- Ebbene, ragazzo. Ammesso e non concesso che questa soluzione non sia di fatto la più corretta, tu cosa cavolo proponi di fare?
- Io non saprei, signor Imprenditore. Vi chiedo solo un po’ di pietà per quella povera ragazza mulatta: lei non c’entra nulla con quello che è successo!
- Invece lei non ha fatto niente per evitare questo casino!
- Non è vero, signor Imprenditore! È stata tutta colpa mia! - si lanciò Alfredo.
- E i soldi per le spese come si trovano, adesso? - si preoccupò il padrone del night.
- Io vi darò tutto quello che ho, signor Imprenditore. A voi poi basteranno un paio di serate ben riuscite e il vostro danno sarà ripagato!
Dapprima il padrone del night si mostrò perplesso e mugugnò. Poi, per fortuna, ruttò.
- Lo sai? In fondo hai ragione, ragazzo mio: intanto tu dammi tutti i soldi che hai nel portafogli, il resto non sarà mica un problema - e strizzando l’occhio allungò la mano sudata come quando si propone di chiudere un affare. Alfredo, di malavoglia, si avvicinò ancora di più all’uomo cercando di trattenere il respiro.
Alla stretta di mano tutti quanti si ritrovarono sollevati. Soprattutto il povero Alfredo, a dirla tutta: aveva perso i risparmi che il nonno gli aveva dato per il corso d’inglese, è vero, ma almeno era riuscito a evitare che la ragazza mulatta venisse licenziata. Soprattutto, il vecchio, al casolare, non sarebbe venuto a sapere che il suo nipotino era stato in un posto come quello (a spese sue).
mercoledì 13 dicembre 2006
Donne con pelle bianca e omoni di nero vestiti
Due sventole in tanga dalla pelle bianchissima si strusciavano contro un unico palo. Dietro, due omoni barbuti di nera pelle vestiti vigilavano a braccia conserte.
Il ragazzo dai capelli lunghissimi non capì subito quanta gente ci fosse nel night. Poi le ragazze si sfilarono il reggiseno l’un l’altra e dal batter di mani realizzò di non essere solo.
Le due ragazze si piazzarono sul bordo del palco a scrutare lontano come quando si cerca qualcuno in un luogo affollato. Una di loro indicò Alfredo col dito. Gli omoni di nero vestiti scesero in platea, lo presero sotto braccio e lo posarono con un tonfo sul palco.
Una ragazza gli consegnò il reggiseno, l’altra gli porse il microfono.
- Il tuo nome è…
Il ragazzo si sistemò la coda.
Non l’avesse mai fatto! La ragazza del reggiseno cominciò a carezzarlo sul viso, poi sulle spalle, poi giù fino alla pancia per poi tornare ai capelli.
- Nu-do! - scandì una voce roca e potente nella penombra della platea.
La musica si fece incalzante. Le ragazze si passarono i capelli di Alfredo sul petto.
- Nu-do!
Il ragazzo cercò un volto a quella voce insolente. La prima ragazza cominciò a maneggiare la cintura, la seconda gli sfilò il giubbotto di jeans.
- Nu-do!
Alfredo, inviperito, trovò che la voce aveva qualcosa di noto. Una delle ragazze gli tolse le scarpe, l’altra la maglia. Restò in mutande con un reggiseno in mano. Abbassò gli occhi. Dalla sala fischi e grida. Dal centro ancora quella voce. Due volte.
- Nu-do! Nu-do!
Sul secondo nu-do un fascio di luce rossa immortalò il volto burlone.
Alfredo ricordò: il tipo della casa con le bandiere, che la sera prima lo aveva scacciato lanciandogli contro il suo cane! Non ci vide più: si lanciò giù dal palco e corse in mutande al divanetto di chi per tutta la sera lo aveva deriso. Gli lanciò contro il reggiseno e si accorse che non era solo: era con lei, la creatura mulatta che aveva incontrato all’entrata del night e che gli aveva più volte sorriso. Si scagliò contro il tipo, che si alzò per menare le mani anche lui. Accorsero i due omoni barbuti a cercare di placare la zuffa, ma già tutti i clienti si erano scatenati, e chi un pugno chi un calcio un po’ tutti approfittarono per sfogarsi un po’. Volarono bicchieri e bottiglie. Nemmeno il ballo improvvisato dalle due sventole dalla pelle bianchissima (nude, vista l’emergenza) riuscì a frenare la folla.
Basta!
Sul palco, qualcuno aveva preso il microfono.
La voce del padrone. Un omone che, sopra il palco del suo locale, sembrava ancora più alto e più grosso del solito. Alfredo notò che stava sudando. I pochi capelli che gli rimanevano in testa si erano appiccicati sulla fronte.
- Allora! - tuonò.
- Di chi è la colpa di questo casino!
La gente che aveva menato le mani si sparpagliò nel locale. Rimasero al centro il povero Alfredo, il tipo con la voce rauca e potente, la ragazza mulatta.
- La colpa è del ragazzo coi capelli lunghissimi! - pigolarono assieme con accento del loco le due ragazze dalla pelle bianchissima che stavano accanto al padrone sul palco (ancora nude, nonostante l’emergenza fosse bella che andata).
- È saltato dal palco e ha cominciato a picchiare!
Alfredo cercò di spiegare che lui non avrebbe nemmeno voluto salirci, sopra quel palco, entrare neppure, a dir la verità, e che per tutto quel tempo quella voce insolente lo aveva scherzato, e per giunta la sera prima lo aveva cacciato di casa come il peggiore dei ladri.
- E a chi dovrei credere io? - lo bloccò presto il padrone.
- Questo signore viene qui da dieci anni! È un signore per bene! Noi lo conosciamo!
- Ma io…
- Niente ma! Qualcuno dovrà pure pagare tutto questo casino! La colpa è tua dunque paghi tu! O chiamo la polizia e la tua famiglia viene a sapere come ti diverti la sera!
- Io…
- Basta! Portatelo qui che non scappi!
I due omoni barbuti, di nera pelle vestiti, parevano non attendere altro.
giovedì 7 dicembre 2006
Perchè in fin dei conti la carne rimane carne
Oltre il finestrino dell'autobus la nebbia celava ogni cosa.
Il ragazzo dai capelli lunghissimi aveva trovato posto dietro due vecchiette.
- Hai sentito? - attaccò quella coi capelli più bianchi.
- Sono andati da Carlo, il figlio di Egidio.
- Egidio della Dina? - provò quella coi capelli più viola.
- Quello della Giustina.
- No!
- Me lo ha detto Gianni - assicurò la più bianca, aiutando quella più viola a sollevarsi dal seggiolino.
- Gianni il genero della Maria? - s'informò la più viola.
- Ha detto che gli hanno portato via tutti gli ori.
- No!
- Non si sono accorti di niente.
- Zingari?
- Zingari, zingari - confermò la più bianca scendendo per prima gli scalini dell’autobus.
La nebbia della prima periferia se le portò subito via.
- Tanto per cominciare - pensò Alfredo vedendole scomparire - si fa un giro in centro. Poi un negozio di dischi, strumenti musicali e se resta un po' di tempo un salto in sala giochi.
Due controllori salirono sull’autobus.
- Mi iscriverò a questo corso d’inglese, così il nonno sarà contento e mi farà uscire un po’ fuori dal suo casolare. Se poi mi resta qualche euro gli compro pure qualcosa di bello: se lo merita, è stato così buono con me che…
- Biglietto!
Il controllore con gli occhiali abbassati squadrò il ragazzo dai capelli lunghissimi.
- Documento prego - intimò l’altro prendendo la penna dal marsupio.
- Non ce l’ho…
- Nome e cognome, capellone - si sbizzarrì il primo.
- Alfredo… Rossi…
- Rossi?
Il secondo cominciò a scrivere.
Sceso in stazione, il ragazzo gettò a terra la multa. Entrò subito in un grande negozio di musica e ci rimase un paio d’ore a curiosare, poi prese il corso per il centro. Dopo pochi passi, da una stradina laterale come un’altra spuntò una vocina piuttosto suadente.
- Ciao bello…
Alfredo si fermò. Si voltò piano. Di fronte, una splendida ragazza mulatta. Giovanissima, snella e slanciata, con gli occhi sottili e i capelli nerissimi raccolti in infinite finissime treccine. Il ragazzo si guardò alle spalle per un momento: forse quel saluto non era stato per lui?
- Ciao bello… - ripeté l’incantevole creatura.
- Ciao… - esitò Alfredo indietreggiando.
- Tu ha capelli lunghi belli… - osservò subito lei.
- Anche tu - rilanciò lui sciogliendosi la coda.
- Tu viene…
- Io? Dove? - domandò, ma la ragazza mulatta s’era già bella voltata: dondolava le anche lungo il vicolo da dove prima era sbucata.
Alfredo rimase lì come un palo: trascinare le gambe verso il centro prima che fosse tardi o liberarle per il vicolo il prima possibile?
Quando la ragazza, prima di sparire dietro una specie di portone, si girò verso di lui e sorrise, Alfredo decise. Si rifece la coda di cavallo alla meglio e si addentrò.
Oltre il portone trovò un piccolo ingresso semibuio. La ragazza mulatta s’era sistemata sopra uno sgabello di metallo nero con le gambe lunghe in bella mostra. Un omino di una certa età (con le gambe cortissime) fumava il sigaro a fianco di una porticina provvista di tenda da cui parevano uscire note di sax e applausi da terza età.
Alfredo notò la scritta viola al neon che stava sopra la porticina.
- Benvenuto all’Honey Moon - lo anticipò l’omino soffiando fumo grigio.
Alfredo buttò lì un vago sorriso. Riguardò la scritta: di tutte le lettere solo NEY e MO resistevano illuminate di viola.
- Honey Moon. Tu lo sai l’inglese, no? - chiese l’omino col sigaro tra le labbra.
- Sì… sì… vuol dire Luna…
- Honey Moon: luna di miele. L’omino strizzò l’occhio destro.
Alfredo sorrise imbarazzato. Guardò l’omino, che lo continuava a fissare, poi la ragazza mulatta, che sorrise con grazia.
- Prego, lo spettacolo è appena cominciato - lo invitò l’uomo indicando la porticina con la punta del sigaro.
- Quanto costa?
- Solo dieci euro. Poi, se vuoi, paghi quello che consumi.
Alfredo consegnò il denaro. L’omino intascò, poi scostò la tendina nera della porticina per far passare il ragazzo.
Prima di entrare Alfredo si voltò verso la ragazza mulatta: gli sorrise di nuovo.
domenica 3 dicembre 2006
Disegnando Pinocchio...
Ogni settimana, attorno a giovedì, ormai da due mesi ho questo appuntamento fisso con il Pinocchio a Nordest di Guido Ostanel. Il giovedì/venerdì disegno l'illustrazione che verrà pubblicata la Domenica sui quotidiani epolis del veneto ed il mercoledì su questo blog. Certo se avessi voluto avrei potuto leggermi tutto lo scritto di Guido consequenzialmente e disegnare le illustrazioni ben prima della loro pubblicazione, ma la sfida che mi interessava affrontare con questo progetto è proprio quella di produrre un disegno a settimana, metodicamente. Come dicevo in un commento qualche tempo fa, l'idea che questo lavoro sia così simile al "fumetto agli albori del fumetto", ovvero diffuso settimanalmente nelle pagine domenicali di un gruppo di quotidiani, è tra gli incipit che mi hanno maggiormente convinto ad affrontare questo impegno.
Ovviamente, non azzecco sempre l'illustrazione al primo colpo (anzi, quasi mai). Da qui l'idea di postarvi ogni tanto qualcuno degli schizzi a matita saltati o completamente irriconoscibili nella pubblicazione finale. Quello che vedete qui sopra è un esempio di queste decine di disegni, che compongono la parte intima del mio lavoro, disegni fatti per non essere visti mai, il cui unico scopo è dialogare con la mia mano e la mia testa per giungere all'inquadratura finale.
Vi ricordo che la Domenica sui siti dei quotidiani epolis coinvolti dall'iniziativa (l'elenco è sulla colonna a sx di questo testo) è possibile vedere in anteprima la puntata che posteremo il mercoledì, tra l'altro se non siete veneti è l'unico modo che avete per vederla nella sua impaginazione nel quotidiano. Oggi potete anche confrontare quanto diverso è lo schizzo iniziale dall'inquadratura che poi ho scelto.
Fatemi sapere,
prossimo appuntamento a mercoledì,
baci,
c.
mercoledì 29 novembre 2006
Una sola cosa è certa, ogni promessa è debito
- Ma qui non c’è mai niente di bello da fare!
Il ragazzo dai capelli lunghissimi cominciò a lamentarsi col nonno.
A sentirlo, in campagna non c’erano stimoli, il tempo non passava mai e lui mica poteva suonare la chitarra tutto il santo giorno. Il vecchio, alle prese con i piatti e le pentole incrostate dalla polenta della sera prima, provò a dire che era solo questione di abitudine, che di lì a qualche giorno avrebbe forse apprezzato la vita tranquilla, il silenzio, l’aria campestre, la cucina casalinga e tutto il resto.
- Per favore nonno! Qui non so mai cosa fare! - protestò il ragazzo gironzolando attorno al vecchio.
- Dovrei dirti di sì come premio per la figuraccia che mi hai fatto fare? - replicò il nonno con le mani in fondo al lavello.
- Ma nonno! Io non pensavo che saresti finito in casa di riposo come i vecchi!
- Tu non pensavi, ma io ci sono finito.
- Ti prometto che non succederà più!
- Mi hanno preso per matto quelli del paese vicino. Lo sai?
- Da oggi sarò più buono con te nonnino!
- Tutti i ragazzi fanno così quando vogliono qualcosa: giurano che saranno più bravi.
- Ma io voglio solo andare in città! Voglio iscrivermi al corso d’inglese! Lo hai detto anche tu che se oggi non conosci l’inglese non vai da nessuna parte...
- Tutti i ragazzi ripetono sempre la stessa storia quando vogliono avere qualcosa.
- Ti prometto che ti aiuterò nell’orto quando non dovrò studiare!
Il nonno diede due colpetti di tosse. Si voltò verso il nipote, che si fermò vicino a lui.
- Tutti i ragazzi…
- Ho capito! Ho capito! Ma io non sono mica come gli altri nonnino! - s'alterò Alfredo - Ti prometto che non finirai mai più in una casa di riposo! Neanche da vecchio!
Il nonno cominciò ad asciugare le stoviglie con uno strofinaccio.
Alfredo riprese a gironzolargli intorno.
- D’accordo. Puoi andare a Padova. Ma mi devi promettere una cosa: sarai a casa per l’ora di cena.
Il ragazzo esplose come una molla.
- Evviva il nonno! Promesso! Promesso!
- Per le otto al massimo ti voglio a tavola. Intesi?
- Alle otto! Grazie nonnino! Come sei buono! - sbraitò il giovane mentre saltava.
- Tu lo sai, è vero, che le promesse vanno mantenute. Perché se no...
Il ragazzo smise di saltare. Rimase in attesa.
- Perché se no... eh, se no… se no che promesse sono? - farfugliò il vecchio, riprendendo subito a passare lo straccio sopra un altro piatto.
- Giusto nonno! Parole santissime! - confermò il ragazzo.
E per ringraziarti della fiducia, sai che ti faccio nonnino? - strappò di mano lo strofinaccio al vecchio.
Ti aiuto io! - e si mise di buona lena ad asciugare i piatti lavati.
Il vecchio lo guardò fare.
- Nonno?
Restò in silenzio.
- E i soldi per l’iscrizione al corso?
- I soldi? Perché quanto costa?
- Sono solo duecento, è il corso base!
- Duecento euro? Sono… due… no, aspetta vediamo… sono…
- Neanche quattrocentomila lire nonnino! - lo anticipò il ragazzo.
- Metà pensione!
- Nonno, è il corso base! È quello che costa meno...
Il vecchio fissò il lavello.
- Vorrà dire che aspetterò tempi migliori per risistemare la cantina. Ho aspettato tanto, non mi cambia certo la vita aspettare ancora un po’, no?
- Mitico nonno! Investi sui giovani!
- Mi prometti che ti impegnerai davvero?
- Promesso! - scattò euforico il ragazzo, e dopo aver preso un altro piatto:
- Nonno?
Il vecchio restò ancora in silenzio.
- Le corde della mia chitarra...
- Cos’hanno?
- Ieri sera si sono rotte di nuovo - spiegò Alfredo sciogliendosi la coda di cavallo.
Il vecchio prese il piatto dalle mani del nipote. Iniziò a passarci lo strofinaccio sopra. Non disse nulla.
Alfredo stava già sulla strada bianca che puntava sbilenca la fermata del bus.
Aveva con sé duecento euro per il corso d’inglese e qualche soldo per le corde della sua vecchia chitarra.
Dalla finestra della cucina il nonno lo guardò rimpicciolirsi. Si asciugò le mani con lo strofinaccio. Lo trovò un po' troppo umido.
- Padova - pensò.
- Speriamo bene.
mercoledì 22 novembre 2006
Il pasto di Alfredo, polenta a colazione
Il ragazzo dai capelli lunghissimi provò a mettersi in piedi. Starnutì, barcollò, ripiombò sulla poltrona.
- Alfredo! - la voce del vecchio tuonò dal cortile.
- Un momento nonnino! Mi alzo e ti... ti... - balbettò, poi una raffica di starnuti.
- Un momento un corno! Apri! Questa è casa mia! - sbraitò il nonno picchiando il pugno sul portone di legno.
Alfredo, con gli occhi gonfi e il naso che colava, ciondolò verso l’entrata.
Il portone ancora tremava. Lo aprì piano.
- Sant’Antonio, nipote!
Il nonno si presentò stranamente ben pettinato. Reggeva in mano un sacchetto di carta marrone.
- Tu! - partì in quarta agitando il sacchetto - Per colpa tua mi hanno trascinato in casa di riposo! Mi hanno dato minestrina, purè, medicine!
Il ragazzo starnutì. Gli occhi gli vennero lucidi.
- Piangi?
Il vecchio moderò la voce. Abbassò il sacchetto di carta.
- Piango? No non... cioè sì! Sì, è che mi dispiace tantissimo nonnino per…
- Mi hai fatto fare una figuraccia!
- Ma è stata una brutta serata! Quando sono tornato ho tagliato per i campi, per fare prima, che avevo fame, ma ho trovato uno strano tipo, pescava le rane...
- Santino?
- Mi ha detto che avrei dovuto assaggiarle! Mi ha preso in giro e io gliele ho tirate addosso, le sue rane, così lui è caduto in fondo al fosso, ma io non volevo, lo giuro, se è morto è stata solo colpa sua!
Il nonno cominciò a tossire. Usò il sacchetto di carta per parare i colpi di tosse.
- Poi qui non ho trovato niente da mangiare, proprio niente che non fosse sanguinacci o polenta, allora sono andato in paese, ma c’era una nebbia che non si vedeva niente di niente, e per poco un camion non mi ha tirato sotto sulla strada d’asfalto...
- Sei andato sulla statale?
- Era tutto chiuso, allora ho pensato che qualcuno poteva aiutarmi e ho suonato a quella casa lì, quella con tutte le bandiere, hai presente? Altro che aiuto! Per poco il cane non mi sbrana!
Lo stomaco gli crepitò. Si portò una mano sul ventre. Il vecchio la fissò.
- Ma alla fine hai mangiato?
Il ragazzo dai capelli lunghissimi si rifece la coda.
- Sono tornato distrutto dalla fame, stanco, infreddolito, mi sono lasciato andare sulla poltrona, mi sono addormentato e poi sei venuto tu…
Il nonno lo guardò. Gli porse il sacchetto di carta marrone.
- Cos’è?
- Pane con l’uva!
Alfredo tirò fuori dal sacchetto una piccola scatola bianca e rossa con sopra scritto “Viagra”.
Il nonno ricominciò a tossire. Strappò dalle mani del nipote sacchetto e scatola, poi blaterò qualcosa di incomprensibile tra un colpo di tosse e quello dopo.
Per cercare di sviare la faccenda tirò in ballo, in un solo intricato panegirico, un favore che doveva da tempo a un vecchio internato, una sagra di paese dove si poteva ballare il liscio con le donne del posto fino a notte fonda e Vanessa (la cantante dei “Vanessa e i suoi Gingilli”), che aveva ospitato al casolare (assieme a tutti e dodici i Gingilli) la volta in cui il furgone dell’orchestra si era inabissato nel fango.
Poi estrasse frettolosamente dal sacchetto il panino con l’uva e lo diede al ragazzo. Alfredo lo studiò, poi cominciò a levarne meticolosamente dalla superficie i chicchi d’uva passa. Li poggiò tutti sul palmo. Formarono un mucchietto.
- Ma non ti piace neanche l’uvetta?! Cinquant’anni fa dovevi nascere tu! - riuscì a dire il nonno, cercando di riconquistare un tono credibile.
Alfredo alzò le spalle. Diede al pane senza più uva un morso così grande che ne risparmiò solo un pezzetto. Guardò il vecchio. Gli porse quel che restava.
- Mangialo tu, io non ho più fame.
Il ragazzo riprese a masticare.
- Mi sa che c’è ancora della polenta… - il vecchio indicò la cucina - la taglio e me ne abbrustolisco un po’.
- Polenta anche a colazione? - fece il ragazzo sistemandosi per bene la coda con la mano libera dai chicchi d’uva.
- Cinquant’anni fa…
- Dovevo nascere io! - lo canzonò il ragazzo.
Guardò i chicchi d'uva che teneva in mano. Non li mangiò.
venerdì 17 novembre 2006
Com'è dura essere straniero in casa d'altri
Alfredo trovò tutto buio e silenzioso. Oltre la statale che squarciava il paese, la chiesa dormiva. Al di qua, la porta del bar mostrava le serrande abbassate. L’orologio tondo del campanile segnava le nove di sera. Sulla statale, per quel che la foschia lasciava vedere, non c’era nessuno.
Alfredo sentì lo stomaco crepitare. Mise una mano sul ventre e si incamminò per la statale. Sentì un rumore dietro di sé, gli parve lontano. Ma dopo due passi si voltò, che il rumore si era fatto più forte. Vide due grossi fari di camion bucare di colpo la nebbia. Si scostò dalla strada, scivolando coi piedi sul ciglio d’erba folta e bagnata, e si aggrappò al tronco di un enorme viscido platano. Il veicolo sfrecciò con un frastuono di ferraglia che a poco a poco si disperse nella nebbia. Il ragazzo dai capelli lunghissimi, nel farsi forza contro il platano per risalire sulla strada, fece cadere un paio di fogli. Uno era giallo, conteneva la pubblicità di un corso rapido d’inglese, l’altro era bianco, con delle scritte verdi a caratteri cubitali. Raccolse dall’erba quest’ultimo: “Padroni a casa nostra!”. Lo lesse un’altra volta, poi si guardò attorno. Lasciò il foglio alla base del platano e riprese il cammino. Dopo pochi passi, sulla destra, trovò un imponente cancello di ferro battuto che sbarrava l’ingresso a una stradina di sassi. In fondo, sfocata nella foschia, Alfredo distinse una villetta con una terrazza illuminata. Davanti, erano parcheggiati un trattore alto quanto la casa e una Bmw scura con dei vistosi cerchi argentati alle ruote e un assetto sportivo che comprendeva alettoni avanti e dietro e minigonne a ogni lato.
Il ragazzo si avvicinò al campanello. Non trovò alcun cognome ma soltanto due nomi, uno di fianco all’altro: “Mario e Giovanni”. Appena sotto un adesivo: “No Geova”. Sentì di nuovo un crampo di fame prenderlo allo stomaco e suonò. Immediatamente, un faro posizionato ai piedi del cancello accecò il ragazzo. Non appena fu capace di riaprire gli occhi vide che le punte del cancello erano lunghissime e affilate, e sostenevano tre pali di legno con altrettante bandiere. Quella più a destra era amaranto e aveva un leone dorato al centro. Quella più a sinistra era bianca e aveva un omino con un uno scudo in una mano e una spada levata al cielo nell’altra. La bandiera al centro, più alta rispetto alle altre, era tutta rossa con la scritta “Ferrari”.
Mentre Alfredo se ne stava col naso all’insù a fissare le bandiere, una voce maschile, roca e decisa, tuonò dalla villa.
- Chi è?!
- Salve... - improvvisò Alfredo senza riuscire a individuare da quale punto arrivasse la voce - Volevo solo chiedere se...
- Non serve niente, arrivederci!
- Non... - provò il ragazzo, riuscendo ora a scorgere la sagoma scura muoversi nella terrazza.
Ma non fece a tempo di terminare la frase che già la porta s’era richiusa. Allora il ragazzo risuonò il campanello per poter illustrare l’equivoco. Qualche secondo e sentì un cane ringhiare. Fece d’istinto un passo indietro. Da dietro la villa spuntò un enorme cane nero, che puntò deciso il cancello, rabbioso. Alfredo, con un paio di balzi, si rimise sulla statale e cominciò a correre.
Quando si fermò per rifiatare, la nebbia si era leggermente levata e la luna, rotondissima in cielo, si sforzava di rischiarargli la strada.
Una volta a casa non ebbe nemmeno la forza di levarsi il giubbotto. Trascinò una sedia davanti al camino e ci si buttò sopra, allungando le gambe per poggiare le scarpe da ginnastica sulle pietre grezze del focolare.
Un minuto dopo era già che russava.
Così fece per tutta la notte finché, di buon mattino, fu svegliato da un bussare alla porta. Si destò rintronato per la posizione tenuta nel sonno, e con un nuovo crampo di fame gli dava il buongiorno, riuscì a chiedere chi era.
- Sono io! Apri! - rispose una vocina irritata.
Era il nonno, rimasto fuori casa per tutta la notte.
Ai ragazzi di oggi non piace il sanguinaccio
Era calata la notte, e assieme a lei una vaga foschia.
Il ragazzo dai capelli lunghissimi, che non aveva messo in pancia niente dalla buonora del mattino, sentì lo stomaco scricchiolare. E un momento più tardi erano già crampi e fitte al ventre.
Alfredo entrò e si avvicinò subito ai fornelli della cucina economica dove stavano abbandonate le pentole che il nonno aveva usato per cena. Le scoperchiò prima una poi l’altra, passandole tutte per poi ricominciare da capo, ma non vi trovò che avanzi rappresi di ciò che aveva già rifiutato poche ore prima: riso bianco, polenta e sanguinaccio. Fece una smorfia, poi iniziò a scostare le tendine color panna della credenza nella speranza di racimolare una merendina al cacao come quelle del distributore della scuola, un pezzetto di cioccolata o almeno qualche biscotto. Intanto la fame cresceva, le fitte allo stomaco chiamavano insistenti, così che il povero ragazzo provò a mettersi al tavolo ancora apparecchiato e prese in mano il tegame che il nonno aveva usato per i sanguinacci. Ne prese uno tra due dita, titubante. Socchiuse gli occhi come di fronte a una medicina indigesta e gli diede un piccolo, incertissimo morso. Tenne il boccone tra i denti qualche momento ma poi, ripensando alle parole del nonno che avevano descritto così precisamente il destino del maiale e la preparazione di ciò che ora teneva tra i denti, spalancò gli occhi e sputò il boccone sulla tovaglia. Si pulì la bocca e si lasciò andare sulla sedia stremato per la fame che non dava pace. Guardò sopra la credenza e si ritrovò nello specchio impolverato. Approfittò per rifarsi la coda di cavallo e meditare. Concluse che per mettere qualcosa di decente sotto i denti sarebbe dovuto uscire di casa e comprare qualcosa. Si accorse che riflessa sullo specchio c’era la sagoma di un portamonete marrone, proprio dietro di lui. Si voltò, lo trovò appoggiato accanto ai fornelli. Era di cuoio scuro, screpolato, e sembrava molto vecchio. Si alzò in piedi, lo prese e lo aprì fiducioso. Dentro, però, non vi trovò che poche monete, oltre alla foto in bianco e nero, ingiallita e tutta stropicciata, di una ragazza in gonne lunghe e zoccoli ai piedi. La prese in mano e la guardò sorridere a un palmo dal suo naso. Pensò che doveva essere la foto di sua nonna, quando lei era giovane e lui nemmeno c’era. La rimise nel portamonete.
- Con questi non mi compro neanche mezzo panino… - pensò contando le monete sul tavolo, poi un crampo gli percorse la pancia a tradimento. Provò a carezzarla con la mano.
Trovò lo slancio per alzarsi e si diresse verso la porta d’ingresso. Prese le chiavi che stavano ancora nella toppa, e dopo aver chiuso la porta con due mandate se le mise nel taschino del giubbotto di jeans. Fuori ormai era buio, e la foschia s’era un poco infittita. Dal cortile, oltre ai lampioni che provavano a rischiarare la strada di casa, Alfredo intravide una luce lontana andare e venire in mezzo ai campi. Gli tornò in mente l’incontro col vecchio delle rane, e le parole che aveva pronunciato.
- Però… se avessi un lavoretto… almeno qualche soldo per comprarmi qualcosa ora ce l’avrei... - pensò.
Si sistemò di nuovo la coda di cavallo e sì alzò i baveri del giubbotto per proteggersi dall’umidità che saliva dai campi. Si ficcò le mani in tasca, poi s’incamminò per il paese.
Lì avrebbe trovato qualcosa di sicuro.
L'incontro di Alfredo col Pescatore di rane
Mentre il povero nonno veniva trascinato in casa di riposo dal vigile del Nordest, Alfredo, salutata la folla della chiesa, si avviò con tutta calma verso casa. Tagliò per i campi di soia e le vigne ancora acerbe, saltando i fossi umidi che segnavano i confini fra le prese dei contadini.
Mentre si preparava a passarne uno di particolarmente profondo, sentì una voce bestemmiare. Gli sembrò venire dal fondo del fosso. Tirò lo sguardo, e nella penombra della sera scorse un vecchietto tutto rugoso, con un naso grosso e rubizzo. Stava cercando di risalire la parete umida del fossato aiutandosi con un bastone di legno, e aveva in mano una sporta di sacco marrone e un sacchetto pieno di batuffoli bianchi sistemato alla cintola dei pantaloni di tela.
- Buonasera… - improvvisò Alfredo spaventato.
- Pian, fai piano… - ammonì il vecchio risalendo il fosso.
- Mi scusi, stavo passando di qui per tornare a casa, abito qui vicino… - spiegò il ragazzo dai capelli lunghissimi.
- Sì, va ben, ma piano, che mi spaventi le rane…
- Le rane?
- Si prendono col silenzio e lo scuro di luna… - disse il vecchio aprendo un lembo del sacco che portava alla cintola e passandolo al giovane.
Alfredo ci sbirciò dentro.
- E come si prendono?
- Non è difficile, ma ci vuole pazienza…
- Con il cotone? - il giovane indicò la punta del bastone del vecchio.
- Le rane sono come le pecore, scimmiottano sempre quello che fanno le altre, senza ragionare…
- Senza ragionare?
- Se una salta, le altre dietro, se una canta, le altre in coro…
- E allora?
- Bisogna essere furbi, capire quando è il momento giusto…
- Per fare che?
- Per fargli vedere il cotone, no? Se una lo morde, le altre dietro! - ghignò il vecchio indicando il fondo del fosso.
- Ma mangiano cotone?
- Sì, cioè, non proprio… non è che se ne cibano, ma se per caso una lo morde perché è curiosa le altre fanno a gara per imitarla, e tu te ne porti a casa una sporta intera per la cena...
- Che schifo!
- Non sai cosa ti perdi, figliolo! Ma le hai mai assaggiate, prima di dire che fan schifo?
- No, ma solo l’idea...
- Povero te! In pentola col pomodoro son la fine del mondo!
- E com’è che ha imparato a prenderle? - sbuffò Alfredo.
- Mi ha insegnato mio padre, era un cacciatore di rane, le prendeva per venderle alle osterie… e a lui ha insegnato mio nonno... insomma, di padre in figlio, sono almeno cent’anni che giriamo per questi fossi…
Il ragazzo fissò i campi tutt’intorno.
- E tu? Di chi sei tu? - lo ridestò il vecchio.
- Io? Sono Alfredo…
- Ho capito, ma Alfredo di chi?
- Di chi? Di… Rossi… Antonio Rossi…
- Rossi… Toni Rossi… strano, non conosco nessun Rossi di qui…
Il ragazzo dai capelli lunghissimi diventò tutto rosso.
- Dove vai a scuola? - chiese il vecchio.
- A scuola?
- Lavori… - ipotizzò il vecchio - Cosa fai?
- Mi piacerebbe suonare la chitarra…
Il vecchio scoppiò in una grossa risata.
- Far il cantante? - singhiozzò poi.
- Magari in un gruppo… oppure mi piacerebbe fare il calciatore…
Il vecchio rise più forte di prima.
- E chi non vorrebbe esser pagato per cantare o giocare a pallone, figliolo! Non son mica mestieri veri questi qui! - sentenziò il vecchio.
- E perché no? - reagì Alfredo.
- Ascolta me! - tuonò il vecchio - Torna a studiare o impara un mestiere, se no finirai dentro a un sacco come le mie rane! - e riprese a ridere di gusto, allungando la mano al ragazzo per riprendersi il sacco con le rane.
Alfredo esitò, poi prese lo slancio col braccio e lanciò il sacco addosso al vecchio che, bestemmiando, scivolò di nuovo in fondo al fosso. E tutte le rane del sacco, libere, presero a saltellargli sul petto.
Arrestato dai vigilantes dopo una lite con Alfredo
A metà pomeriggio Alfredo posò i piedi sul cortile del casolare del nonno. Non era la prima volta che il ragazzo con i capelli lunghissimi vedeva la casa del vecchio, ma era passata una vita dall’ultima volta che suo padre lo aveva portato fin lì, alle porte di Padova, per un saluto dopo l’ennesimo ricovero per via dei polmoni. Ora il vecchio abitava solo, ma un tempo, quando aveva posato la vanga per il Petrolchimico di Marghera, aveva vissuto con le famiglie di fratelli e cugini.
- Non hai fame? - si preoccupò il nonno.
- Non molta - mentì il ragazzo.
- Non mangi da stamattina…
- Non mi va.
- Ho dei sanguinacci, su in solaio…
Il ragazzo squadrò il vecchio.
- Vado a prenderli, sono subito pronti!
Ma già al primo assaggio il viso di Alfredo si attorcigliò per il disgusto. Quando il nonno spiegò come aveva ucciso il maiale durante l’inverno, il giovane prese silenziosamente congedo dal piatto e rifornì d’acqua il suo bicchiere.
Il vecchio cercò un argomento buono per conversare.
- Ho sentito prima, mentre giravo la polenta… cos’era?
- Cose moderne.
- Tipo?
- Non le conosci.
- Ah bè, ma erano belle… sei mai andato a scuola di chitarra?
- No.
- Potresti…
Alfredo fissò il nonno, poi ripose gli occhi sul tavolo.
- Ti potrebbero aiutare a…
- Suono così, ho imparato da solo.
- Sì, ma se vai da qualcuno che ne sa di più magari ti…
- Ascolto la radio e imparo.
- Ti potrebbero consigliare, no? Quando ero in Africa c’era un tenentino sardo che…
Il giovane scattò.
- Alfredo! - provò il nonno, ma il nipote stava già sul cortile.
- Aspetta! - gracchiò il vecchio iniziando a tossire.
Il ragazzo prese per i campi. Il nonno, raccattato il Califfone dalla stalla, si lanciò dietro al nipote sulla strada di sassi.
- Fermati! - provò a urlare il vecchio raggiunto il paese, in prossimità della chiesa dove si era appena cantata la messa della sera. A sentire quelle grida, il vigile che assisteva i fedeli nell’attraversare la statale si mise a gambe larghe, di traverso, e con l’enorme pancione riuscì a fermare il ragazzo, che cadde rovinosamente a terra. Il vigile lo risollevò prendendolo per la coda (che pareva fatta a posta per essere acchiappata dai vigili del Nordest), mentre la gente si era ormai disposta tutto intorno, in mezzo alla strada.
Il nonno si fece largo a stento tra i curiosi col Califfone a mano, tossendo, i capelli scompigliati e gli occhiali di traverso.
- Alfredo… - riuscì a dire appena.
Il nipote si aggrappò al pancione del vigile.
- Povaréto… - piagnucolò una prima vecchietta.
- Guarda com'è conciato, non è mica tutto sano quello lì… - analizzò una seconda vecchietta puntando il dito contro il nonno (che guarda un po’ non risultava della stessa parrocchia).
- Sarà un ubriacone… chissà se lo batte, a casa… - fece una signorina abbronzata, ornata di gioielli, tutta truccata.
- Hanno detto che sono scappati due matti dalla casa di riposo… - buttò lì uno.
- L’ho sentito anch’io… - raccolse un altro.
- È vero! - chiosarono in coro.
Intanto il giovane stava aggrappato al pancione del vigile, e capita l’antifona cominciò a dire che “quel balordo” aveva preso a inseguirlo così, senza motivo, mentre stava giocando per la strada.
Il vecchio, sentendosi accusato, rinculò di qualche passo. Provò a replicare che quel ragazzo con i capelli lunghissimi era solo suo nipote, ma iniziò a tossire che non lo fermava più nessuno e a lacrimare per gli sforzi. Il vigile, che per gli occhi rossi lo giudicò gran bevitore, lo bloccò per un braccio. Lo avrebbe accompagnato alla casa di riposo per verificare se fosse davvero fuggito da lì.
- Ma io… - tentò il vecchio fra i colpi di tosse mentre veniva caricato in auto.
- Silenzio nonnetto! Poche storie, che ti do pure la multa per il casco! - ringhiò il vigile.
- È quel che ci vuole! - decretò la prima vecchietta.
- Razza di ubriacone! - precisò la seconda.
Le nuove avventure del burattino moderno
C’era una volta…
- Un Presidente coi tacchi e i capelli finti! - direte voi.
Invece no, cari lettori.
C’era una volta un ragazzo con i capelli lunghissimi (e senza i tacchi).
Non era un ragazzo chissà che speciale, a dire il vero. Diciassette anni, figlio unico, viveva con mamma e papà in una casina di tufo di un paesello dell’Italia centrale. Il padre sapeva pascolare le pecore, parlare al maiale e strizzare le olive. La madre sapeva cucire, lavare e cucinare. Lui, il ragazzo con i capelli lunghissimi, faceva la terza superiore. Il pomeriggio si divertiva a torturare una vecchia chitarra stonata e a giocare a pallone con gli amici della scuola, che poi erano gli stessi con cui usciva la sera e gli stessi con cui, ogni settimo giorno, scendeva al campo sportivo per fischiare la squadra venuta da fuori.
Ora non so bene come accadde, ma il fatto è che un disgraziato giorno d’aprile il padre e la madre del ragazzo ebbero un terribile incidente d’auto, e morirono.
Era a scuola. Se ne stava alla lavagna da una decina di minuti almeno nella speranza di scoprire il segreto che gli permettesse di scomporre un polinomio che di farsi scomporre non ne voleva proprio sapere. E se la professoressa di matematica, un’antipaticissima zitella di prugna cotonata, non avesse continuato a picchiettare le unghie sulla cattedra, i compagni si sarebbero di sicuro assopiti, un po’ per l’aria oppressa della classe, un po’ per le merendine farcite del distributore automatico consumate in fretta e furia durante l’intervallo. Così, nel tentativo di guadagnare secondi preziosi, il ragazzo aveva cominciato a gigioneggiare coi propri capelli, lisciandoseli coi polpastrelli e rifacendosi la coda di cavallo a più riprese.
D’un tratto la professoressa smise di picchiettare le unghie. Si alzò dalla cattedra e puntò la lavagna. Il silenzio ghiacciò la stanza. Il ragazzo smise di preoccuparsi dei propri capelli.
- Ma non lo vedi, mio caro, che è un polinomio di primo grado, questo?
Il tic-tic delle sue unghie-a-orologeria riprese sulla superficie della lavagna.
- Sì… - buttò lì lui.
- E allora! - vomitò lei - Se è di primo grado non si può scomporre! Ogni/polinomio/di/primo grado/è/irriducibile/per/definizione! - scandì a tutta gola - L’abbiamo visto ieri! C’eri/tu/ieri?!
- Sì… - azzardò lui.
- Ma daaai! - baritonò lei - C’eeeri!
Bussarono alla porta.
- Avanti! - schioccò la donnaccia, una mano incollata alla lavagna, sopra il polinomio, l’altra poggiata sul fianco.
La porta verde ospedale si schiuse incerta. Sulla soglia, la sagoma di un signore rinsecchito e ricurvo, occhiali stile Ivan Graziani, cappellaccio verde scuro tra le dita, capelli bianchi tutti arruffati.
Il ragazzo coi capelli lunghissimi diventò rosso in viso.
- Nonno… ma…
Il vecchio tossì, prima piano, poi più forte, fino a non respirare quasi più.
- Alfredo… - sibilarono le labbra del vecchio tra un colpo di tosse e l’altro.
E una grossa lacrima scivolò lungo un solco della sua guancia rugosa. Dietro di lui, a testa bassa, spuntarono due carabinieri.
Ora non vi racconto per filo e per segno di come il ragazzo, appresa la triste notizia, si mise a scalciare il distributore di merendine, urlando e piangendo per la disperazione. Né mi soffermo sul numero di volte in cui si sentì mancare durante il funerale. Il punto è che quelli furono giorni davvero tremendi per il ragazzo con i capelli lunghissimi.
Fino a quando, un tiepido giorno di tardo giugno, fu presa la decisione di lasciare il paesello che continuava a portargli solo notti inquiete, assistenti sociali e parenti prima mai visti per andare a passare l’estate in campagna, nel casolare del nonno. E già la mattina seguente fu chiamato un taxi per prelevare il vecchio, il nipote e i bagagli dalla casina di tufo e portarli alla stazione dei treni.
Ebbene, cari lettori, ciò che accadde dopo quel viaggio per terra e rotaie verso Nordest (senza il trattino) è una storia così assurda e insieme così vera da non potersi quasi credere
Una questione di immaginario
Facile: non c'è modo migliore.
Non per me. Non per il mio immaginario.
Sàrmede, Treviso. Un paio d'anni fa.
Mostra dell'illustrazione per l'infazia. Tema: Pinocchio.
Vertigine: ma io questi luoghi li conosco! Ma sono i miei! Io ci convivo da sempre (ci provo, voglio dire)!
E questo Gatto qui! Questa Volpe! questo Geppetto, questa Fatina sono proprio...
Swoosh!
Inghiottito per sempre. Risucchiato nelle illustrazioni di Sàrmede.
Proprio come nella vita: risucchiato a Nordest.
Nordest: tragicomagico Orto che non ha pari nel Mondo.
Avanti stranieri venite!
Venite provate anche voi!
A Nordest si piange e si ride!
Provate a ballare con noi!
A Nordest si piange e si ride!
Non ditelo in giro: qui ci si diverte così!